Il ragionier Ugo Fantozzi, il travet Giandomenico Fracchia, il professor Kranz tedesco di Germania.
Quante volte, in una giornata, capita di pensare a loro, di parlare di loro o di sentirsi, anche solo per un attimo, come loro? Quante volte ci si “intrecciano i diti” in preda a un panico che, improvvisamente, diventa sollievo perché alla fine lo si valuta come una situazione fantozziana da cui si può uscire tranquillamente con una risata o con un colpo di coda improvvisato? Quante volte abbiamo citato Villaggio e Banfi in “Fracchia la belva umana”, con la clamorosa cena alla Parolaccia e quel finale tragicomico? Quante volte ci siamo sentiti come il ragionier Fantozzi, di fronte a una difficoltà, a un megadirettore galattico, di fronte al dottor grand’ufficial lup. mann. ducaconte di turno? Quante volte, con gli amici, abbiamo pensato di organizzare una partita Scapoli – Ammogliati o, trovandosi a giocare a tennis, abbiamo ripassato mentalmente il vestiario di Fantozzi e Filini?
A guardarsi attorno, con gli occhi di Villaggio, ci troviamo letteralmente circondati da personaggi, e situazioni, usciti dai suoi libri e dai suoi film. Tanto che vien da pensare che qualcosa non quadri. Oppure che quadri al punto tale che, forse, la grandezza di Villaggio sia stata proprio quella di mostrarci il mondo da una prospettiva nuova, deformante quel tanto che basta a renderlo più semplice, più divertente e più leggero.
La capacità di Villaggio, al pari di un Rabelais o di un Dante Alighieri, è stata sempre quella di far crollare l’alto verso il basso: ha saputo disarmare il potere dandogli una connotazione talmente assurda e fuori luogo che è come l’improvvisa scoreggia del demonio dantesco mentre attorno infuria l’inferno. Il potente di turno viene deriso in modo chirurgico semplicemente mostrandone il gigantismo paradossale: la poltrona in pelle umana, il tragico pouf, le dimensioni spropositate dei “compari” durante le magie del professor Kranz, la fasulla complicità dei colleghi più ricchi e belli o le demenziali pretese di Cobram, con tanto di gara ciclistica e vestiario anteguerra. Per non parlare dei doppi e tripli nomi (la contessina Serbelloni Mazzanti Viendalmare su tutti) e dei titoli che diventano l’ennesima occasione di crudele sfottò, con il dottor professor lup. man. grand. uff. figl di put… . I sottoposti vessati e derisi, compresi nel surreale balletto, diventano però lo specchio sul quale il riflesso dei “padroni” si sfuoca e si deforma. Come in un luna park.
Sicuramente non scrivo cose nuove. Ma è difficilissimo, in questo momento, pensare che Villaggio non ci sia più, con quel suo modo corrosivo di raccontare la vita, di raccogliere su di sé il compito di far vedere che il re è sempre stato nudo, anche quando si vestiva di sete e broccati. Con quella sua aria blasé, grazie alla quale riusciva a dire qualsiasi cosa facendo intendere contemporaneamente il suo contrario, perché in fondo contenitore e contenuto, e questo è un caso scuola, si fondono per confondere. Villaggio, in fondo, non è mai stato solo Fantozzi, ma una perfetta confusione di tutte le parti che ha giocato in vita: era un po’ Kranz, con quella sua sfrontatezza surreale, era un po’ Fracchia, che gli offriva il destro per sdoppiamenti e viaggi sulle tracce di Dracula, era un po’ Fantozzi, maschera geniale non solo di una categoria ma di un’intera nazione. Una nazione che, di fronte ai suo personaggi, non poteva rimanere indifferente, tanto si sentiva chiamata in causa.
A guardare il mondo con gli occhi di Paolo Villaggio ci si accorge di quanto sia ironica la vita. Una lezione che cambia prospettiva e che può pure insegnare ad avere un rapporto differente con le difficoltà che si incontrano. Mal che vada uno se la può sempre cavare con una sardonica risata e una fuga dietro l’angolo.
Alessandro Boriani