In un’epoca dove gli smartphone si trasformano in estensioni del nostro stesso essere, viene sovrascritto il significato dell’affermazione “io c’ero”. Ricordate quel momento in cui, durante un evento qualsiasi, vi siete ritrovati a fare da paparazzi, immortalando un’esperienza che avreste potuto vivere pienamente, liberando le vostre emozioni e che, invece, avete trascorso rigidi e attenti a non perdere l’inquadratura?
Eccolo, il paradosso moderno dell’essere presenti solo per attestare con un video sgranato o una foto mossa che “sì, c’ero anche io”.
E quando, presi dal sacro fuoco del reporter, ci siamo ritrovati in pose da scarabocchio, intenti a cercare quel taglio speciale dell’immagine, rischiando gomitate, calci negli stinchi e cadute rovinose dell’adorato feticcio da duemila euro e del prezioso schermo che non abbiamo protetto con la pellicola?
Con le nostre piccole fiamme di Prometeo digitali sostituiamo gli accendini ai concerti, riducendo la grandezza fisica e artistica del nostro mito in un display luminoso da 6 pollici. Un audace tentativo di zoomare oltre i limiti fisici dello smartphone, seguito da una serata a indossare la maschera del dolore mentre cerchiamo invano una foto decente tra le rovine di scatti fallimentari, da pubblicare per raccontare al mondo che “eravamo lì davvero”. Grazie al cielo ci sono i filtri che confonderanno tutti, un po’ come la barrique per il vino triste.
E poi ci sono i video, un tuffo nell’inaudibile grazie alle grida estatiche dei nostri “vicini di concerto” e alla povertà dell’apparato audio del nostro piccolo amico. Così si finisce per arrendersi alla saggezza collettiva di YouTube, scorrendo quei cinquemila inutili gemelli digitali del nostro video in cerca di quello perfettamente inquadrato da veri professionisti. Perché, ammettiamolo, nella nostra era digitale il bieco furto di immagini professionali è ormai un peccatuccio da “così fan tutti”.
L’assenteismo presenziale
Benvenuti dunque nel circolo virtuoso dell’assenteismo presenziale: dove ci si ritrova a prolungare amabilmente la cena scattando foto ai piatti invece di godersi il cibo, e intanto la pietanza si raffredda. Non dimentichiamoci dei matrimoni, o delle cerimonie più melanconiche come i funerali, dove persino i momenti più sacri sono infilati in questo carosello digitale, nonostante la presenza di professionisti assoldati per catturare ogni lacrima versata. Nell’occasione giova ricordare che quando si parla di professionisti non ci si riferisce al “cugino” che lavora in nero. Quello è solo un hobbista (e un evasore fiscale).
È giunta l’ora di affrontare l’amara verità: la realtà ha bisogno di essere rappresentata per essere considerata reale. Finché non è stata condensata in una serie di byte, pronta per essere eternata nella nube sembra essere una realtà che non ci appartiene, anche se fisicamente ne abbiamo fatto parte. Deve essere virtuale per tornare reale.
Quindi, prima di scivolare nuovamente in questa spirale autocelebrativa, ricordiamoci di vivere pienamente i momenti che la vita ci regala. Il nostro viaggio umano su questa sfera, che alcuni curiosi individui insistono a dire sia piatta, è scolpito nei ricordi autentici, conservati gelosamente nel nostro cuore. Ricordi che nel tempo migliorano perché restano vivi nella nostra memoria, non in quella del telefono. Che oltretutto si scarica.
Massimo Max Calvi