Nelle ultime due settimane sono successe, in quasi rapida successione, tre cose che hanno colpito la mia curiosità.
1 – Ho visto Jason Bourne, film di Paul Greengrass con Matt Damon, parte quinta della saga dell’agente segreto senza memoria ideato da Robert Ludlum.
2 – Ho cercato in rete un paio di pattini da regalare a mia figlia per Natale. Di quelli che non hanno già la scarpa incorporata ma si allungano seguendo la crescita del piede.
3 – Poco dopo i pattini ho avuto bisogno di usare Google per una ricerca online, se non ricordo male cercavo notizie su un vecchio sito che avevo navigato tempo fa e che avrei voluto ritrovare.
Perché queste tre cose sono collegate fra di loro? È presto detto. Al centro della trama del film di Bourne c’è un social network, Deep Dream, creato da un programmatore idealista, che diventa la piattaforma ideale per sottrarre informazioni agli utenti a favore dei Servizi deviati (cliccando qui potete vedere la sequenza). Il creatore di Deep Dream non vorrebbe che la CIA continuasse ad approfittare di questa enorme banca dati anche perché ha appena promesso agli azionisti e alla stampa che la cosa a cui tengono di più, in azienda, è la privacy. Lo spettatore fa subito due conti: se non è Facebook, il riferimento reale di questa enorme macchina di raccolta dati, possono benissimo essere Google o Apple (anzi, a un certo punto si parla di rendere più gradevole e utile l'”esperienza dell’utente”, da sempre mantra a Menlo Park).
Il punto è che se non sono interessati alla privacy, questi signori dei motori di ricerca e dei social sono interessati ad altro. A cosa? Ma è molto semplice. E la risposta arriva dal punto 2, seguito a ruota dal punto 3, della mia scaletta di eventi collegati. Che poi è la stessa cosa che ha interessato, e interessa ancora tantissimo, a chi cura la programmazione e le scalette dei canali tv: il portafoglio dello spettatore, nella sua fase “acquirente”.
Punto 2: cerco dei pattini, li trovo su Amazon. Siccome non sono sicuro di trovarli altrove e costano il giusto, li prendo. E poi, soddisfatto, passo ad altro. Invece Google, e con esso Amazon, si convincono che mi servano ancora dei pattini. Quindi mi propongono pattini per altri due o tre giorni di ricerche mie in rete. Sempre pattini, di ogni foggia, colore, prezzo e provenienza. Invece di pensare che, magari, potevo essere interessato ad altro. Cosa? Qualsiasi altra cosa: i pattini li ho già presi, caro Google, hai capito?
Evidentemente no. Perché se in tv la pubblicità passa in modo generalista, e ti propone un sugo pronto dopo un profumo e prima di un’automobile (centrando almeno uno dei bisogni primari dello spettatore X), in internet la pubblicità è semantica: legge l’utente, lo valuta, lo incasella e lo bombarda allo sfinimento con lo stesso prodotto. Che è quello che a lui è interessato ma forse non più, perché quel bisogno l’ha già soddisfatto.
Ecco. Questo è estremamente interessante. L’e-commerce funziona. Molto bene, oltretutto. Ma ha un piccolo problema, secondo me, che deve risolvere prima di incartarsi su se stesso. L’e-commerce (Amazon, Zalando, Apple, Pincopanco, etc) ti ripropone i prodotti che hai già cercato. Ad libitum. Senza considerare che, magari, quel prodotto l’hai già preso e sei a posto così. Hai cercato un disco dei Metallica? Ma perché non ne compri due o tre? Hai letto l’ultimo Harry Potter? Magari ti serve il primo? o il secondo? Hai guardato per un paio di cuffie per ascoltare la musica? Prendine un altro paio questa volta nere! Hai preso una giacca bianca? Fai il paio con una bella giacca bianca! Hai cercato una camera a Bari per il 22 dicembre? Perché non passi un po’ di tempo a Cantù il 23? O a Lecce il 22? O a New York il 21?
L’utente, di cui tutti conoscono la posizione attuale e quella passata (Maps, Expedia…), di cui tutti sanno cosa ha mangiato negli ultimi venti mesi, dove è stato di recente a dormire e quanto ha gradito la suite imperiale alle Terme di Caracalla (Tripadvisor), cosa ha comprato su Apple Store e quanti iPad possiede in quante versioni e colori, dopo l’ennesima riproposizione potrebbe averne anche abbastanza. E di certo non compra la quinta giacca bianca per passare due notti a Bari nello stesso hotel ascoltando il terzo disco identico dei Metallica sul quarto paio di pattini leggendo lo stesso libro di Harry Potter comprato tre volte.
No. L’utente, anche quello più medio di tutti, le cose le compra una volta sola. Al massimo due se la prima la rompe. Quindi, mi son chiesto: ma agli e-commerce conviene davvero questa invasione della “shopping privacy” degli utenti? Non converrebbe, piuttosto, provare a proporre prodotti diversi di categorie merceologiche diverse, come fanno in tv?
Alessandro Boriani