Oggi, quando ho saputo che era morto Roger Moore ho detto: “No… il primo 007!”. Chiaramente ero caduto in trappola ma, per me nato all’inizio degli anni ’70, James Bond ha sempre avuto i suoi occhi azzurri, il suo ironico aplomb inglese e la sua scorrettezza sorniona, che diventava implacabile quando si trattava di scendere lungo le pendici dei monti, indossando un paio di sci inseguito da orde di nemici pronti a farlo secco (ironia della sorte la morte l’ha preso proprio in Svizzera, dove ha avuto a che fare con un sacco di cattivi bondiani uscendone quasi sempre illeso). E con lui ricorderò il poster de “L’uomo con la pistola d’oro”: 007 in posa con la pistola tenuta con la mano destra a incrociare il petto, due bellezze in bikini e una pistola d’oro che entra nell’inquadratura mentre una mano carica un proiettile nella canna. Un’immagine che è diventata un’icona del genere per un film che aveva uno dei cattivi più strepitosi di sempre (assieme a Goldfinger): quello Scaramanga che verrà sconfitto in uno scontro a fuoco in una camera di specchi.
Il James Bond di Moore era quello della battuta fulminante (“I’ve lost my charm!”, gli dice la ballerina del ventre Saida, “Not from where I’m standing” risponde lui), un seduttore impenitente con qualche gadget tecnologico da tirare fuori al momento giusto, quello con la carriera più lunga e più complicata (le missioni per la Regina arrivarono fino a “Moonraker” e all’esotica “A view to a kill”, che molti ricordano per la strepitosa colonna sonora dei Duran Duran, che lo portò dalla Siberia a San Francisco passando per Parigi).
Il bello degli attori, però, è che sono un po’ come i personaggi che interpretano: nei film guadagnano un’immortalità che non è concessa a chi, lo schermo, lo frequenta solo dal “lato spettatore”. Che ha però, la fortuna, di poter riaccendere ogni volta la sacra fiammella del mito, e goderne così della compagnia.
Alessandro Boriani