L’altro giorno ascoltavo il nuovo disco di Brunori Sas, “A casa tutto bene”. Mentre lo ascoltavo avevo l’impressione che qualcosa mi stesse sfuggendo. L’impressione che una delle canzoni (“L’uomo nero“) avesse dentro di sé una specie di germe che la rendeva fuori luogo sebbene fosse precisamente dove dovesse essere. Alla fine ho deciso che dovevo togliermi il dubbio: ho letto i testi e, tack, come d’improvviso ho capito. E mi sono tornate in mente le chiacchiere che facevamo con il mio vecchio caporedattore, quando parlavamo di quelli che scrivevano, sui giornali, esattamente le cose che avrebbero dovuto scrivere, le cose che i loro lettori volevano leggere. La sfida era quella di scrivere qualcosa di fuori corrente, mica contro a tutti i costi, magari anche solo parallela alla corrente a far da contraltare, per impedire al proprio pensiero di impantanarsi nella tranquillità di un’idea comune. Un’idea già masticata, digerita e diffusa per il consumo anestetizzato dei lettori.
Chi compra un giornale come “Libero” o “Il Giornale” vuole leggere determinate cose, chi compra il “Fatto Quotidiano” ne vuole leggere altre, chi compra “Repubblica” o “La Stampa” altre ancora. Così come chi sintonizza il proprio televisore per vedere il Tg4, Tg3, Tg2, TgLa7 o SkyNews24 o la propria radio per ascoltare “La Zanzara”, Radio 3, “Sei 1 Zero” o “DeeJay Chiama Italia”. Ci si informa e si ascolta attraverso canali prediletti, che dicono le cose che amiamo ascoltare, che ci cullano con idee che condividiamo e che non ci costringono ad arzigogoli mentali che potrebbero sconvolgerci.
La sfida, ripeto, era quella di provare a far cambiare aria alle idee. Difficile, ma non impossibile. E non per farle cambiare a chi ci leggeva: operazione difficile, se non impossibile, visto il megafono a disposizione e una relativa naivetée di fondo che ci apparteneva per natura. Il nostro era solo un tentativo di aprire la finestra per fare un po’ di confusione sul tavolo, dove le carte erano belle disposte. Era una sfida soprattutto a noi stessi, in un periodo in cui fra l’altro i social non c’erano, i blog compivano pochi lustri e i siti di news si contavano sulle dita di una mano.
Oggi, in cui regna una confusione mostruosa e tutti hanno la possibilità di pubblicare le proprie idee grazie al 2.0, questa sfida è ancora più complicata. È complicata dal fatto che scriviamo per gli amici nostri, i gruppi che frequentiamo sono quelli (come i bar negli anni prima del millennium bug) e le camere delle idee vengono tenute stagne, come a proteggere qualcosa che rischia di essere scompigliato. E la stagnazione, parola perfetta per l’occasione, si fa sempre più impenetrabile man mano che le idee si allontanano dalle nostre: se uno la pensa in modo diverso è, minimo minimo, sbagliato.
Ma questo non fa crescere: né chi non legge idee altrui (anche solo per curiosità), né chi scrive. Anzi! Chi scrive cerca, per evitare risse verbali o insulti a pioggia, di uniformarsi alla voce dello stagno e gracchia solo parole già rimuginate. O si trova come il tifoso della foto, a parlare a un pubblico che ha la stessa reattività delle sedie di uno stadio.
Quella sfida là era appassionante. Ci divertivamo e crescevamo: scoprivamo cose nuove, si imparava a coprire la notizia da più angoli possibile, a renderla inattaccabile, si cresceva perché si lasciava il porto tranquillo per affrontare le onde, con la consapevolezza che si era provato con tutte le forze.
Alessandro Boriani